[Mondadori, Milano 2005]
La «tecnologia politica del corpo» di cui parlava Foucault, rappresenta uno dei motivi centrali attorno al quale si sviluppa il racconto in versi Guerra. Qui però, a differenza di quello che accade in molta poesia contemporanea, il corpo sulla scena non è quello del poeta. Lo sguardo è collettivo, si descrive in un tono «antiretorico e antioracolare» la manipolazione e violazione dei corpi come parte di una strategia politica. Le scene di tortura dominano la sezione Per il potere di sciogliere e legare: «Il supplizio della veglia / Consisteva nella sospensione – / Funicelli, vebbia e cavalletto – / A braccia slogate / Per quaranta ore. / Durante le quali, come sveniva, / il condannato era calato su un legno appuntito / e all’urlo subito risollevato».
I supplizi che investono i corpi di soldati e civili costellano ovunque il testo inseriti in cornici che compongono nature morte «Dal campo di battaglia / Coi resti putrefatti / Di uomini e cavalli / Tra le ruote dei carri / E la ruggine ai cannoni». L’equilibrio tra pietas e controllo stilistico è mantenuto sempre anche nei momenti di massima tensione, come quando si indaga sul dolore dei deportati e si riporta quella tassonomia di esperimenti che annullano qualsiasi rispetto per la vita. L’altro fronte del controllo politico del corpo è rappresentato dai «corpi docili» addomesticati dalla disciplina che sfruttando il meccanismo della camaraderie ne decide i destini: «È approfittare di un corpo generoso / Che si sposa a un altro corpo, al corpo […] Gli scherzi le risate per tradurli / In odio deciso ed imboscate ad amici / Di altre risate […] Questo uso malefico del bene / È questo che non perdoneremo».
L’impossibilità di perdonare, che riecheggia un verso di Sereni, torna specularmente nella sezione citata sul museo degli orrori delle torture controriformiste (qui «gli strumenti umani» sono quelli che servono per fare a pezzi il corpo del condannato): l’accusa colpisce l’abuso di potere della Chiesa che dal mandato di Pietro, «Per il potere di sciogliere e legare», ha represso e annientato. Lo spazio della guerra (una guerra che attraversa tutte le epoche e i luoghi) con la sua geometria panoptica sembra perciò dividere il mondo in «belve» (ancora Sereni) e «vittime della storia». Alcuni versi della poesia di apertura, che pongono l’interrogativo drammatico sull’esistenza di una giustizia extra-terrena, tornano variati in contesti nei quali la necessità di un intervento divino è contraddetta con violenza dalla realtà dei fatti.
In un mondo dove il «Dio con loro» è incarnato nelle facce dei martiri, l’unica cosa certa è madre terra che ingoia «lance alabarde sangue carne ossa» «nel trionfo della vita » e il cui unico interesse sembra essere «la volontà di replicazione». È quella terra che custodisce il corpo del partigiano, la natura di ascendenza leopardiana che «tanto si cura delle sue creature» da mummificarle nel ghiaccio, è la radice zoologica del male. La poesia di fronte all’eterno ritorno dell’uguale deve opporre l’«esercizio del ricordo» (Guerra ha anche per questo motivo il respiro di classico) consapevole però dei suoi limiti: «è il troppo brutto / che non si riesce a dire / Perché esistono tutte le parole / Ma sono troppo lunghe e finisce / Che assorbono / Dei pezzi di dolore». Senza cedere al nichilismo, si riconosce tuttavia la contraddizione che esiste nella difesa della memoria, se alla fine «tutto prima o poi diventa musical», «senza più coscienza di dolore». Questo perché «non c’è voce nelle pietre / né parola che diventi carne o sangue».
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